PROPRIETÀ INTELLETTUALE, TECNOLOGIE DIGITALI E ACCESSO ALLA CONOSCENZA SCIENTIFICA
Prof. Roberto Caso1
Sommario: 1. Introduzione — 2. intellettuale vs. norme informali per il controllo della conoscenza scientifica — 3. Tecnologie digitali e modelli di produzione delle informazioni — 4. Tecnologie digitali e fonti del diritto — 5. Forme di controllo delle informazioni digitali: Digital Rights Management vs. GNU General Public License e Creative Commons Licenses — 6. Verso un controllo rigido e accentrato della conoscenza scientifica — 7. Una nuova speranza: il movimento dell’Open Access — 8. Conclusioni
1. Introduzione
Mi è stato generosamente offerto un qualche margine di libertà nel rimodellare il titolo della mia relazione. Ma la generosità ha i suoi effetti collaterali. E così il mio compito ha assunto i (poco promettenti) contorni di una «missione impossibile»! Insomma, parlare di proprietà intellettuale, tecnologie digitali ed accesso alla conoscenza scientifica chiama in causa una folla di questioni ed una letteratura che si va facendo alluvionale. Preso da un ravvedimento tanto subitaneo quanto operoso e nel tentativo di dare pregnanza al mio ragionamento, mi limiterò a quelle che appaiono più rilevanti.
Per cominciare vi propongo un confronto tra due differenti tipologie di avvertenze.
La prima si colloca comunemente nella terza pagina di un libro (anche quello contenente un saggio scientifico) ed è conformata dal tono minaccioso di chi agita il «braccio violento della legge»:
«a norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile è vietata la riproduzione di questo libro o parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilms, registrazioni o altro …».
La seconda tipologia ricorre nel pie’ di pagina delle bozze di articoli scientifici ed è ammantata da un piglio distaccato ed elitario che suona più o meno così:
«bozza non destinata alla citazione o alla circolazione».
In altre parole, esiste una divaricazione tra il controllo dell’informazione che fa leva sulla proprietà intellettuale e quello che si basa sulle norme informali della comunità scientifica. Qual è l’impatto delle tecnologie digitali su queste diverse concezioni del controllo dell’informazione? Per cercare di dare risposta al quesito il mio ragionamento si struttura nel modo seguente.
Nel paragrafo 2 vengono riassunti i termini della diversità tra proprietà intellettuale e norme informali della comunità scientifica. Nel paragrafo 3 si descrivono brevemente i caratteri fondamentali delle tecnologie digitali e la loro ricaduta sui modelli di produzione dell’informazione. Nel paragrafo 4 si offre un quadro di sintesi degli effetti che le tecnologie digitali proiettano sulle fonti del diritto. Nel paragrafo 5 si tratteggiano i lineamenti delle principali forme di controllo delle informazioni digitali. Nel paragrafo 6 si denuncia il rischio che il controllo rigido ed accentrato dell’informazione improntato a logiche commerciali colonizzi la conoscenza scientifica rendendola meno accessibile agli scienziati ed al pubblico. Nel paragrafo 7 si illustrano i tratti fondamentali del movimento di reazione della comunità scientifica che va sotto il nome di Open Access evidenziandone anche gli aspetti problematici. Nel paragrafo 8 si traggono alcune conclusioni.
2. Proprietà intellettuale vs. norme informali per il controllo della conoscenza scientifica
La proprietà intellettuale è stata forgiata prevalentemente da interessi commerciali. In particolare, gli antecedenti storici dei brevetti per invenzione e del diritto d’autore nascono nella forma di privilegi concessi dal potere sovrano ai rappresentanti del ceto commerciale, come tessitori e stampatori, per esercitare in esclusiva la propria attività. Il meccanismo del privilegio si è poi evoluto nel diritto di esclusiva riconosciuto per legge2.
Dalla prospettiva economica, il diritto di esclusiva costituisce un meccanismo necessario a bilanciare l’incentivo alla produzione di informazioni inventive e creative con l’accesso alle medesime informazioni3.
In natura l’informazione, a differenza dei beni materiali, è un bene non escludibile e non rivale. A causa della non escludibilità è impossibile che emerga un mercato dell’informazione. I costi fissi per la produzione dell’informazione originale sono molto elevati, mentre i costi marginali di riproduzione e distribuzione sono bassi4. In particolare, chiunque può riprodurre e distribuire l’informazione a costi contenuti senza dover affrontare i notevoli costi sopportati dal produttore originario. In questo contesto, ogni consumatore dell’informazione si trasforma di fatto in un pericoloso concorrente del produttore originario. Si tratta in buona sostanza di un tipico caso di «fallimento del mercato». Senza un intervento specifico dello Stato, il mercato non riuscirebbe a funzionare e dunque non vi sarebbe produzione sufficiente di informazione. Secondo la classica schematizzazione economica, lo Stato ha tre soluzioni per rimediare al fallimento del mercato5:
- la produzione diretta di informazione (ad esempio, mediante università ed istituti di ricerca pubblici);
- la fornitura di sussidi e premi a soggetti che producono informazione (ad esempio, sgravi fiscali per centri di ricerca);
- l’istituzione di diritti di proprietà intellettuale (monopoly rights) per la creazione di un mercato dell’informazione ed in particolare delle idee inventive (brevetti) e creative (opere dell’ingegno).
L’istituzione di un monopoly right sull’informazione è quindi una soluzione (non l’unica possibile), che lo Stato mette in atto al fine di incentivare la produzione dell’informazione.
In particolare, la proprietà intellettuale conferisce al suo titolare un’esclusiva artificiale (nel senso che a causa delle caratteristiche del bene non può emergere spontaneamente ed è per questo creata ad hoc dallo Stato), garantita formalmente dalla legge, che emula il meccanismo della proprietà sulle cose materiali, ponendo le basi di un mercato. Il titolare del diritto di proprietà intellettuale può sfruttare in esclusiva l’invenzione o l’opera godendo di un vantaggio sui concorrenti. In altri termini il diritto di esclusiva costituisce una sorta di monopolio (legale). Chi ne gode può praticare un prezzo monopolistico, cioè superiore al costo marginale di produzione. Ciò costituisce un beneficio, in termini di incentivo alla produzione dell’informazione, ma anche un costo per la società. La principale categoria di costi sociali deriva dal fatto che saranno esclusi dalla fruizione dell’informazione coperta dall’esclusiva tutti coloro i quali non sono disposti a pagare il prezzo monopolistico. Tra questi figurano anche coloro che vorrebbero rielaborare l’informazione per produrre nuove invenzioni ed opere. È quindi necessario che i costi sociali non superino i benefici sociali derivanti dall’incentivo a produrre conoscenza. Nella visione economica i limiti ai diritti di proprietà intellettuale servono appunto a questo scopo. Si tratta di limiti di tempo (ad es., il brevetto per invenzione dura generalmente 20 anni; il diritto d’autore dura generalmente tutta la vita dell’autore più altri 70 anni) ed ampiezza (ad es., il brevetto per invenzione copre solo le idee nuove atte ad avere un’applicazione industriale; il diritto d’autore copre solo la forma espressiva di un’opera originale).
Nonostante la ricerca dell’equilibrio tra incentivo alla produzione di informazioni ed accesso alle medesime informazioni, rimane il fatto che la proprietà intellettuale è stata (ed è tuttora) costruita prevalentemente intorno ad interessi commerciali. Il dato sembra comprovato dal fatto che all’interno delle leggi sui brevetti per invenzione e sui diritti d’autore non esiste un regime organico della conoscenza scientifica, tutt’al più è possibile rintracciare qua e là norme che attengono solo ad alcuni profili della ricerca, dell’insegnamento e dell’attività creativa ed inventiva svolta negli istituti di ricerca e nelle università6.
All’opposto, i caratteri istituzionali della produzione della conoscenza scientifica sono stati disegnati essenzialmente, fuori dalle dinamiche commerciali, dagli usi e costumi della «repubblica della scienza»7.
Un filone autorevole (anche se risalente) della sociologia della scienza ha individuato le principali norme informali che governano la produzione di conoscenza scientifica: «universalismo», «comunismo», «disinteresse» e «dubbio sistematico»8.
L’universalismo significa che la veridicità dei risultati della ricerca è slegata dall’identità (nazionale o istituzionale) dello scienziato9.
Il comunismo implica che la conoscenza è il frutto della collaborazione tra colleghi e dunque deve essere messa a disposizione della comunità scientifica10. Tutta la conoscenza attuale è costruita su quella passata e costituisce la base di quella futura11.
Il disinteresse prescrive che gli scienziati debbano perseguire la ricerca della verità e non il proprio interesse personale.
Il dubbio sistematico vuole che le tesi sostenute dagli scienziati siano sottoposte al vaglio critico della comunità prima di essere accettate.
Le quattro norme sono rafforzate dal riconoscimento in termini di prestigio (e di progressione di carriera) da parte della comunità. Quest’ultima premia coloro i quali apportano contributi originali alla conoscenza. L’enfasi sull’originalità spinge a pubblicare il più presto possibile le proprie ricerche, per evitare di essere superati da altri12. Ma dopo la pubblicazione, lo scienziato non vanta più un’esclusiva sulla conoscenza prodotta.
Sebbene la ricostruzione mertoniana della scienza sia stata sottoposta a revisione critica13, essa rimane un punto di riferimento per la letteratura giuridica che mette in evidenza come la diversità tra proprietà intellettuale e norme informali della comunità scientifica possa ingenerare conflitti14. In particolare è la vocazione all’apertura dei risultati scientifici ad essere messa a rischio dalla pervasività della proprietà intellettuale15. Per citare solo l’esempio più famoso: esiste una tensione tra il requisito brevettuale della novità e l’esigenza dello scienziato (soprattutto quello accademico) di pubblicare il più presto possibile. La pubblicazione dei risultati distrugge la novità. Lo scienziato dovrebbe perciò attendere la fine del procedimento brevettuale prima di pubblicare16.
Qual è il ruolo delle tecnologie digitali nell’accesso alla conoscenza scientifica?
A una prima superficiale impressione le tecnologie digitali moltiplicano ed accelerano le possibilità di accesso alla conoscenza scientifica. Dunque, si potrebbe pensare che il loro utilizzo all’interno della comunità scientifica abbia rafforzato la tendenza ad aprire al pubblico i risultati della ricerca.
Tuttavia, come mi appresto a dimostrare17, il quadro è molto più complesso18.
3. Tecnologie digitali e modelli di produzione delle informazioni
Le tecnologie dell’informazione e della telecomunicazione presentano caratteri rivoluzionari. Ai fini del discorso che segue, se ne possono individuare tre.
1) È possibile superare il concetto di copia – nato con l’invenzione della stampa a caratteri mobili – inteso come copia del supporto materiale che replica la matrice. L’effetto finora più evidente di questo carattere delle tecnologie digitali sta nella possibilità di effettuare e distribuire su scala globale copie dematerializzate – cioè copie di file, che altro non sono che sequenze di bit – qualitativamente perfette a costi prossimi allo zero. Ma altri effetti sono ancora più rivoluzionari, è possibile fruire di un’informazione ripetutamente senza «possedere» nemmeno la copia dematerializzata della stessa (cioè senza avere permanentemente sul proprio apparecchio un file riproducibile): si pensi allo streaming sul quale fanno leva fenomeni come YouTube.
2) Si è in grado di veicolare l’informazione in una lingua unica compresa dal computer (il codice binario) ed in un formato aperto (c.d. codice sorgente aperto), cioè modificabile dall’uomo (l’esperto informatico) che conosce i linguaggi di programmazione.
3) D’altra parte si ha il potere di chiudere totalmente l’informazione (ad esempio, si può tenere segreto il codice sorgente di un software o crittografare un file audio) rendendola comprensibile solo alle macchine, o meglio rendendola accessibile e fruibile (dall’uomo) secondo modalità e con programmi o apparecchi – sotto quest’ultimo profilo rientra in gioco in una forma diversa la materialità – predeterminati. Si può, ad esempio, confezionare un software per la lettura di file musicali in modo che sia compatibile solo con un determinato hardware (tale risultato si ottiene mantenendo segreto il codice sorgente delle interfacce, cioè di quei moduli che servono appunto a far comunicare fra loro formati, programmi e macchine). Si può fare in modo che un file musicale sia accessibile solo da parte di chi dispone della chiave d’accesso (ad esempio, un login ed una password).
Il mutamento rivoluzionario della tecnologia induce il mutamento profondo dei modelli di produzione dell’informazione19 (nell’ambito dei quali scolora la distinzione tra prodotto e servizio) nonché la comparsa di nuovi intermediari della creatività, cioè i produttori ed i gestori delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
Inoltre, nel settore dell’industria informatica l’interoperabilità e la compatibilità sono essenziali20. Tali caratteristiche rendono l’uso dei computer (hardware e software) efficiente, in quanto consentono la condivisione e lo sviluppo del lavoro effettuato su ciascuna macchina. L’interoperabilità e la compatibilità presuppongono un processo di standardizzazione. Più lo standard di riferimento diviene dominante (cioè più soggetti usano lo standard), più aumenta il suo valore per chi lo usa. Nell’analisi economica, un tale effetto prende il nome di «network externalities» (esternalità di rete)21. Questo effetto è amplificato nelle reti telematiche di computer. Tuttavia, gli standard comportano anche costi sociali. Gli standard – o meglio, eventuali cambiamenti degli standard – implicano «switching costs» (costi di riconversione)22. I consumatori si trovano incastrati (c.d. effetto di «lock in») in una tecnologia standardizzata, il cui abbandono causerebbe elevati costi di riconversione.
Lo standard può, dunque, essere la leva per innalzare barriere all’ingresso23, ed assumere caratteristiche simili a quelle di un monopolio naturale24. Esso inoltre tende a permanere – a causa di fenomeni come l’effetto di lock in – anche dopo la sua obsolescenza, con costi sociali che si aggiungono a quelli del monopolio25.
A fronte dello scenario fin qui descritto, si delineano due modelli di produzione dell’informazione.
- Il primo modello si basa sulla chiusura dell’informazione e dunque su un controllo rigido e accentrato della stessa. Tale modello genera forme di produzione e distribuzione gerarchiche dove i titolari dell’informazione possono predeterminare chi, dove, come e quando potrà fruire dell’informazione: si pensi ai sistemi di DRM, basati su misure tecnologiche di protezione, come il FairPlay di iTunes, il negozio virtuale della Apple, o alla distribuzione in streaming di contenuti che possono essere solo visualizzati e non scaricati come avviene per la maggior parte dei libri indicizzati nel programma Google Books Search. Uno dei modi in cui può essere sfruttato il controllo rigido ed accentrato dell’informazione è praticare la strategia commerciale della discriminazione dei prezzi26. Ad esempio, è possibile vendere ad un prezzo elevato mille ascolti di una canzone, e ad un prezzo contenuto dieci ascolti della medesima canzone27.
- Il secondo modello si basa sull’apertura dell’informazione e dunque su un controllo flessibile e decentrato della stessa. Tale modello genera forme di produzione e distribuzione non gerarchiche (dette appunto Peer to Peer) dove gli attori, mossi talvolta da incentivi diversi dal pagamento diretto della prestazione, svolgono ibridamente sia la funzione di produttori sia quella di consumatori: si pensi allo sviluppo del software a codice aperto come il sistema operativo Linux o alla scrittura di testi come l’enciclopedia on-line dove tutti gli utenti della rete possono pubblicare o modificare voci (Wikipedia).
Emergono nuovi interessi e nuove contrapposizioni. Queste contrapposizioni si possono verificare non solo tra interessi appartenenti ai due diversi modelli di produzione, ma anche all’interno di uno stesso modello.
Inoltre, le due grandi tipologie di modelli commerciali rappresentano due mondi comunicanti che possono dar vita a forme di contaminazione reciproca.
4. Tecnologie digitali e fonti del diritto
A fronte dei nuovi modelli di produzione delle informazioni digitali, il diritto statale è chiamato a dirimere controversie in un contesto (in parte) dematerializzato e deterritorializzato28. Si perdono così i principali punti di riferimento per l’efficacia e la deterrenza dell’apparato di tutela del diritto d’autore: la materialità dell’attività di contraffazione ed il territorio sottoposto alla sovranità ed alla forza pubblica.
Il diritto statale vede parzialmente diminuire la sua importanza (il suo braccio appare men che violento!), mentre cresce la rilevanza degli ordinamenti privati.
La ragione per la quale la rivoluzione delle tecnologie digitali non è paragonabile ai progressi tecnologici che l’hanno preceduta sta anche nel fatto che essa investe il sistema delle fonti del diritto.
La regolamentazione del controllo delle informazioni digitali trova le sue fonti non solo nel diritto statale (ed in particolare, nelle leggi sulla proprietà intellettuale) ma anche (e soprattutto):
- nel contratto;
- nella consuetudine;
- nella tecnologia.
Lo studio di questo sistema delle fonti si presenta assai complesso e necessita ancora di notevoli sforzi ricostruttivi. Tuttavia, alcuni dati minimi si possono dare per acquisiti.
Sia il contratto sia la consuetudine possono assumere nel contesto del diritto dell’era digitale tratti caratteristici differenti dal passato. Il contratto tende a standardizzarsi e ad essere espresso in linguaggi (che rispondono a loro volta a standard tecnologici) destinati alla macchine. Nello stesso tempo esso può sovrapporsi e confondersi (?) con la consuetudine. D’altra parte, la determinazione dei presupposti della consuetudine si scontra con il carattere frammentario, mutevole ed aterritoriale dei comportamenti tenuti nella dimensione di Internet29.
Ma è la tecnologia a presentare i tratti di maggiore novità.
Le architetture informatiche sono state paragonate a quelle fisiche. Il codice informatico alle regole giuridiche30. Come le architetture fisiche (si pensi ai dossi artificiali per ridurre la velocità dei veicoli sulle strade31), le architetture digitali recano in sé stesse regole implicite ovvero disegnano lo spazio del comportamento umano. Come le regole giuridiche, il codice binario condiziona il comportamento umano.
Tuttavia, occorre rimarcare le differenze che corrono tra regole informatiche e regole giuridiche32.
A) Nelle architetture informatiche il codice digitale assomiglia più alle regole implicite incorporate nella materia che alle regole giuridiche verbalizzate da un uomo. Le regole delle architetture digitali sono rigide e predeterminate33. Quelle giuridiche sono per loro natura flessibili, cioè soggette ad una formulazione o ad un’interpretazione variabile nel tempo.
B) Inoltre, il processo di produzione delle regole informatiche è differente da quello che è alla base della produzione di regole di diritto. Le regole informatiche sono scritte da tecnici e non da giuristi. Gli obiettivi politici che stanno a ridosso del processo di produzione delle regole non sempre sono trasparenti34. Spesso, le implicazioni giuridiche degli standard informatici sono trascurate.
C) La forza di una regola giuridica dipende da vari fattori, tra i quali spicca il grado di condivisione che la stessa incontra nella comunità di riferimento. La forza di una regola informatica dipende essenzialmente dalla sua efficacia tecnologica (ad esempio, una barriera crittografica può essere considerata efficace solo se è virtualmente impossibile «rompere» gli algoritmi crittografici sui quali si basa), nonché dal suo grado di diffusione (ad esempio, una determinata architettura informatica potrà dirsi davvero condizionante del comportamento umano solo se e quando assurgerà a standard tecnologico diffuso tra una moltitudine di utenti). La diffusione di uno standard è cosa diversa dalla condivisione di una regola giuridica.
D) La regola informatica – soprattutto quando corrisponde ad uno standard tecnologico – è per sua vocazione globale, mentre quella giuridica spesso è a vocazione locale35.
E) La regola informatica è espressa in un linguaggio che deve essere comprensibile anche alle macchine e che in ultima analisi si identifica in una sequenza di 0 e 1. In definitiva, il linguaggio informatico (o meglio la sua forma ultima che è rappresentata dal codice binario) è unico e privo di ambiguità. La regola giuridica (successiva all’epoca del diritto muto36) è verbalizzata, cioè espressa nell’ambiguità tipica del linguaggio umano e nella specificità di ciascuna lingua parlata.
Un emergente filone di ricerche interdisciplinari si dedica allo studio dell’incorporazione di valori giuridici condivisi nelle regole informatiche (c.d. value-sentitive design o value-centered design)37. Tuttavia, per le caratteristiche che si sono evidenziate nei punti A) ed E), lo stato attuale delle tecnologie è molto lontano dalla possibilità di tradurre nel codice binario la flessibilità né di un principio generale né – per quel che più conta in questa sede – di una norma informale consuetudinaria! Al massimo è possibile tradurre in linguaggio informatico regole giuridiche di dettaglio (le quali, peraltro, dovrebbero essere dotate di vocazione globale)
5. Forme di controllo delle informazioni digitali: Digital Rights Management vs. GNU General Public License e Creative Commons Licenses
Facendo leva sulle leggi in materia di proprietà intellettuale, sui contratti, sulle consuetudini e sugli standard tecnologici è possibile ottenere differenti forme di controllo delle informazioni digitali.
Attualmente si delineano due forme di controllo che corrispondono ai due modelli di business che sono stati sopra illustrati.
A) Nella prima forma, il controllo si basa sulla chiusura dell’informazione e si presenta rigido ed accentrato. Tale tipologia di controllo prende avvio dal mercato del software c.d. proprietario e si fonda su una (prima rudimentale) misura tecnologica di protezione: la secretazione del codice sorgente38. Sulla prassi della secretazione del codice sorgente si innestano il riconoscimento della protezione da copyright e la diffusione di End User License Agreements (EULAs) finalizzati a rafforzare il controllo sul piano contrattuale.
Questa tipologia evolve nel DRM basato su misure tecnologiche (crittografiche) di protezione. Il controllo si estende da una forma espressiva del software (il codice sorgente) ad ogni informazione rappresentabile in codice binario (non solo software, ma file di testo, audio, video etc.). Si presti attenzione al fatto che mentre la secretazione del codice sorgente è una forma di controllo relativa, in quanto è teoricamente possibile un procedimento di ingegneria inversa che porti dal codice oggetto ad un codice sorgente simile a quello segreto, nella criptazione digitale il controllo è – nel caso in cui l’algoritmo crittografico sia sicuro – assoluto ed esercitabile a distanza. Tuttavia, l’evoluzione non sta solo nel potenziamento del controllo dell’informazione, ma anche nella traduzione degli EULAs in un linguaggio comprensibile alle macchine. L’obiettivo del DRM è infatti che i termini della licenza per l’accesso e l’uso dell’informazione siano riconoscibili dai software e dagli apparecchi costruiti (in base agli standard del sistema di DRM) per la fruizione della medesima informazione. Si tratta di un’idea messa a punto alla metà degli anni ‘90 presso il PARC della Xerox a Palo Alto da Mark Stefik, uno scienziato informatico. Stefik è stato il primo a formalizzare in modo compiuto l’idea dei «Trusted Systems» dalla quale deriva anche il DRM39. Sotto il profilo del controllo delle informazioni, le principali componenti dei sistemi di DRM sono:
- le MTP basate principalmente sulla crittografia digitale, ma anche su altre tecnologie come il watermarking (marchiatura) ed il fingerprinting (rintracciamento) digitali;
- I metadati che accompagnano il contenuto che sono in grado di descrivere in un linguaggio che è comprensibile al computer:
- il contenuto;
- il titolare del contenuto;
- l’utente;
- le regole per l’utilizzo del contento (se esso può essere copiato, stampato, ridistribuito etc., dove può essere fruito, con quali apparecchi può essere fruito), espresse in linguaggi che vengono denominati Rights Expression Languages (RELs), come l’eXtensible rights Markup Language (XrML) che è uno degli standard di maggiore successo.
Il DRM diviene dunque il paradigma del controllo rigido e accentrato dell’informazione digitale. I suoi tratti caratterizzanti possono essere così sintetizzati.
La fonte principale sta nella tecnologia (e nei suoi standard). Essa prevale sulla fonte legislativa nel senso che il DRM affida la sua forza all’autotutela tecnologica piuttosto che alla tutela statale. La legge può tutt’al più svolgere un ruolo ancillare legittimando e proteggendo il ricorso all’autotutela. Prevale anche sul contratto per come inteso nella nostra tradizione giuridica, in quanto i termini per l’accesso e l’uso dell’informazione sono tradotti in RELs (cioè in standard tecnologici) e per il loro tramite in codice binario comprensibile solo dalle macchine. In altre parole, il contratto è totalmente automatizzato. Prevale (o tenta di prevalere) sulla consuetudine, perché il DRM è un meccanismo di predeterminazione accentrata della regola (mentre la consuetudine si sviluppa in modo spontaneo e decentrato) ed incorpora regole rigide (mentre le regole consuetudinarie sono, per natura, flessibili).
La tecnologia fa assumere al controllo esclusivo una natura differente dal diritto di esclusiva d’autore. Il diritto d’autore, come si è detto, è un diritto di esclusiva, limitato nel tempo e nell’ampiezza, sulla forma espressiva di un’opera originale. I limiti in ampiezza sono verificati mediante clausole generali ex post da una corte di giustizia. Il DRM genera un controllo esclusivo dell’informazione digitale (anche un singolo dato, come una parola o una nota, non dotato di alcuna originalità). I limiti del controllo sono predeterminati, in base a regole rigide tradotte in standard tecnologici, da privati. Il controllo esclusivo può non avere scadenza e può essere applicato ad un’informazione che non presenta i caratteri dell’opera dell’ingegno. A differenza del controllo contrattuale dell’informazione, il controllo esclusivo basato sul DRM si rivolge ad una serie indeterminata di soggetti (assume di fatto una natura «reale», comportandosi come una sorta di «proprietà dell’informazione»). Chiunque vorrà fruire dell’informazione sarà (di fatto) soggetto alle regole incorporate e alla tutela (fondata su ciò che l’analisi economica del diritto definisce una «property rule»40, cioè su una tutela inibitoria) nella tecnologia. La tutela del diritto d’autore fa leva sulla materialità dell’attività che integra la violazione del diritto di esclusiva. La tutela del DRM fa leva sull’inalterabilità dell’architettura informatica (ad es., inviolabilità degli algoritmi crittografici, immodificabilità dell’hardware etc.) e dunque in ultima analisi sulla conoscenza (un’entità immateriale). Le opere dell’ingegno sono espresse tradizionalmente in linguaggi aperti che consentono l’accesso e la conservazione (quanto meno quella parziale affidata alla memoria umana) dell’informazione. Se il DRM si basa fu standard tecnologici espressi in formati chiusi (cioè segreti), un’eventuale obsolescenza dei formati rende di fatto inaccessibile l’informazione.
B) Nella seconda forma il controllo si basa sull’apertura dell’informazione e si presenta flessibile e decentrato. Il primo modello compiuto di questa forma di controllo è rappresentato dalla GNU General Public License. L’informatica ha mosso alcuni dei suoi più significativi passi fuori dalla logica della secretazione del codice sorgente41. Nell’ideale continuazione (o rilancio) della logica opposta a quella della secretazione del codice sorgente si mosse Richard Stallman42, un informatico che allora operava nel laboratorio di intelligenza artificiale del Massachussets Institute of Technology (MIT). Stallman aveva contribuito decisivamente allo sviluppo di una serie di programmi che emulavano le funzionalità del sistema operativo UNIX dei Bell Laboratories dell’AT&T. Questi programmi furono etichettati con la formula GNU, una formula che sta a significare che GNU non è UNIX. Ma l’idea rivoluzionaria di Stallman fu quella di far leva sulla proprietà intellettuale (in particolare, sul copyright) per garantire, a chi avesse voluto, la libertà di copiare (copyleft), distribuire e sviluppare software a codice sorgente aperto (open source, appunto). Per dare corpo alla sua idea Stallman creò, assieme ad un gruppo di suoi collaboratori, specifiche condizioni generali di contratto, cioè condizioni per ‘licenziare’ il software a codice aperto43. Questo particolare tipo di licenza fu denominato GNU General Public License (GPL)44. Stallman aveva compreso un risvolto decisivo del copyright e cioè che lasciar cadere in pubblico dominio il software a codice aperto non avrebbe evitato una sua successiva «appropriazione» (o meglio, non avrebbe evitato ad altri programmatori di rielaborare il codice aperto e di secretarlo, rendendolo un’opera derivata, in quanto tale soggetta al copyright e sottratta al pubblico dominio). La GNU GPL nasce, dunque, a tale scopo. In altri termini, gli sviluppatori di software a codice aperto avrebbero dovuto contare su alcune «libertà fondamentali»45:
- libertà di eseguire il programma, per qualsiasi scopo (libertà 0);
- libertà di studiare come funziona il programma e adattarlo alle proprie necessità (libertà 1); l’accesso al codice sorgente ne è un prerequisito;
- la libertà di ridistribuire copie in modo da aiutare il prossimo (libertà 2);
- la libertà di migliorare il programma e distribuirne pubblicamente i miglioramenti, in modo che tutta la comunità ne tragga beneficio (libertà 3); l’accesso al codice sorgente ne è un prerequisito.
Tali libertà emergono chiaramente dalla lettura della GPL46. Dalla stessa lettura si evince anche che la tutela delle libertà si regge sul meccanismo che dichiara il software oggetto della licenza protetto dal copyright ed obbliga al contempo i destinatari della GPL ad applicare, nel caso di distribuzione dello stesso software o di software derivati (e dunque modificati), la GPL ai propri (successivi) licenziatari47.
Al modello della GNU GPL si ispirano molte tipologie di licenze. Fra quelle che stanno riscuotendo maggior successo vi sono le Creative Commons (CC) Licenses48. Uno degli ideatori del progetto Creative Commons è il giurista statunitense Lawrence Lessig, il quale, ispirandosi all’idea di Richard Stallman, ha trapiantato il modello della GNU GPL, sperimentato con successo per il software, nel campo più esteso dei contenuti digitali e delle opere dell’ingegno veicolate sui supporti tradizionali come i libri cartacei49. Nel sito del progetto italiano si legge:
«Le licenze Creative Commons offrono un insieme flessibile di protezioni e libertà per autori, artisti e educatori. Partendo dal concetto ‘tutti i diritti riservati’, tipico del diritto d’autore tradizionale, offriamo a chi è interessato degli strumenti per un approccio ‘alcuni diritti riservati’. Creative Commons è un’organizzazione non-profit. Le licenze Creative Commons, come tutti i nostri strumenti, sono utilizzabili gratuitamente».
I tratti caratterizzanti delle licenze c.d. non proprietarie come la GNU GPL e le CC Licenses possono essere così sintetizzati.
In modo analogo a quanto avviene per il DRM, gli ordinamenti privati sembrano rivestire maggiore importanza del diritto statale. A differenza del DRM, però, le regola tecnologica rimane sullo sfondo (apertura del codice sorgente del software o apertura del contenuto) e soprattutto la tutela non è affidata (almeno negli archetipi delle licenze non proprietarie) alla tecnologia. La prevalenza è data invece ad un testo contrattuale standardizzato (pur sempre basato sulla legge del copyright). La scarsa litigiosità finora riscontrata nell’uso delle licenze non proprietarie può far ritenere che sia all’opera anche una consuetudine la quale riconosce il carattere vincolante dei testi delle licenze di là dalla prospettiva della tutela giudiziale. La cosa non sorprende. Le licenze non proprietarie formalizzano in testi contrattuali prassi che assomigliano alle (senza identificarsi nelle) norme informali della comunità scientifica (dei programmatori).
Come i modelli di business che sono chiamate a governare, anche le forme di controllo non rappresentano due dimensioni totalmente separate. Esistono infatti forme ibride di controllo che sfruttano caratteristiche di entrambe le tipologie che si sono ora tratteggiate.
6. Verso un controllo rigido e accentrato della conoscenza scientifica
A fronte dello scenario fin qui descritto, si delinea il rischio che il controllo rigido e accentrato (come quello basato su sistemi di DRM) ed improntato a logiche commerciali colonizzi il settore della comunità degli scienziati (che invece è animato dalla logica del controllo flessibile e decentrato fondato su consuetudini e norme informali) determinando una forte compressione delle possibilità di accesso alla conoscenza scientifica espressa in forma digitale50. Questo rischio dipende da molti fattori.
La digitalizzazione assieme ad altre cause – come l’accorciamento della distanza tra ricerca di base e applicata – fa sì che la comunità scientifica percepisca le conoscenze come beni economici commercializzabili sul mercato mediante diritti di proprietà intellettuale e MTP. Questo fenomeno riguarda anche istituzioni che ricevono finanziamenti pubblici come le università51.
L’editoria scientifica contemporanea è dominata dal ruolo di pochi grandi editori privati, i quali applicano logiche di mercato e diritti di proprietà intellettuale alla circolazione delle informazioni relative alla conoscenza scientifica. A dispetto del fatto che le tecnologie digitali consentono enormi risparmi in termini di costi di produzione e distribuzione dell’informazione, il prezzo di accesso alle informazioni scientifiche digitalizzate praticato dagli editori privati pare destinato a salire52.
Le leggi occidentali spingono verso un rafforzamento ed una moltiplicazione dei diritti di proprietà intellettuale su beni (informazioni) digitali53. Nuovi beni sono soggetti a proprietà intellettuale (ad esempio, software e banche dati); singoli beni possono essere soggetti a più tipologie di diritti di proprietà intellettuale (ad esempio, il software, in alcuni casi, può essere soggetto sia a diritto d’autore sia a brevetto, le banche dati nell’Unione Europea possono essere soggette sia a diritto d’autore sia a diritto sui generis); più soggetti reclamano diritti di proprietà intellettuale (ad esempio, non solo soggetti privati o imprese, ma anche istituti di ricerca, università, etc.)54. Il controllo rigido e accentrato come quello basato su sistemi di DRM si innesta dunque su un quadro di rafforzamento della proprietà intellettuale. Nonostante l’enorme potere di controllo e dei molti riflessi che esso proietta su vari piani giuridici, i legislatori occidentali si sono affrettati a dettare una disciplina di legittimazione e tutela (solo) di alcune componenti dei sistemi di DRM collocandola nelle leggi in materia di diritto d’autore55. Il lobbying di interessi tradizionali (l’industria dell’intrattenimento) ed emergenti (l’industria delle tecnologie DRM) ha fatto premio sull’interesse pubblico alla regolamentazione organica ed alla limitazione del controllo rigido ed accentrato delle informazioni digitali. Una limitazione tanto più essenziale nel campo della ricerca scientifica56.
Le leggi sulla proprietà intellettuale sui beni digitali e sulla disciplina del DRM variano a seconda del sistema giuridico di riferimento. Ad esempio, il quadro giuridico statunitense è differente da quello dell’Unione Europea, ma anche all’interno dell’Unione Europea vi sono sensibili differenze da paese a paese. Ciò costituisce un ulteriore ostacolo all’accesso ed alla circolazione della conoscenza scientifica espressa in forma digitale57.
7. Una nuova speranza: il movimento dell’Open Access
Per contrastare questo rischio parte della comunità degli scienziati si è mossa promuovendo la logica dell’accesso aperto (Open Access) alla conoscenza scientifica58.
Ad esempio, molte comunità scientifiche pubblicano i propri risultati su propri portali accessibili a chiunque (e senza pagamento di un prezzo) mediante Internet. Si può trattare della pubblicazione di bozze o di articoli già pubblicati su riviste a pagamento59, o ancora dell’unica forma di pubblicazione delle ricerche60. Ma il fenomeno riguarda anche la didattica.
La logica dell’Open Access (OA) è promossa anche in alcune solenni dichiarazioni come la Berlin Declaration on Open Access to Knowledge in the Sciences and Humanities dell’ottobre del 200361.
Tuttavia, gli assetti istituzionali ed i profili tecnologici dell’OA sono variegati e pongono una serie di problemi.
Ad esempio, la condivisione del codice sorgente del software basata sulla GNU GPL si affida al contratto ed alle norme informali tipiche della comunità dei programmatori software. Da una parte, il rispetto della GPL è garantito attraverso la minaccia del ricorso al diritto statale dei contratti. Vi è quindi una differenza dalle tradizionali norme informali della comunità scientifica. Dall’altra, il medesimo rispetto è garantito dalla reputazione legata al rispetto delle norme della comunità dei programmatori. Non è detto che queste ultime siano adattabili ad altre comunità (come la comunità dei biologi, o dei giuristi)62.
Per fare un altro esempio, il progetto Creative Commons (CC) sta sviluppando un programma specifico dedicato alla conoscenza scientifica denominato: Science Commons63. Tuttavia, il trapianto della logica delle licenze CC nell’ambito scientifico innesca numerose questioni64. Sebbene il procedimento brevettuale implichi la pubblicazione dell’invenzione, molti lamentano che tale pubblicazione non raggiunge l’effetto di rendere accessibile la conoscenza scientifica alla base del brevetto. Si propone perciò l’estensione della logica dell’OA al materiale brevettabile. Però, le licenze CC come la GPL sono contratti di diritto d’autore e, per questo, difficilmente estensibili al materiale brevettabile. Le licenze CC sono strumenti giovanissimi, mentre l’assetto istituzionale della comunità scientifica è antico. Le licenze CC sono contratti che valgono per tutte le tipologie d’autori, la comunità scientifica è composta di varie comunità scientifiche. Ciascuna di esse possiede, oltre alla norme informali che si sono già sommariamente descritte, norme informali specifiche. Le licenze CC sollevano come tutti i contratti standard la questione della tutela dell’accettante. In particolare, un filone di estremo interesse è quello che mira a migliorare la posizione cognitiva e informativa del destinatario facendo sì che egli scelga con maggiore consapevolezza l’assetto contrattuale preferito65. Questa prospettiva necessita di un notevole approfondimento anche sul piano informatico ed in particolare nella direzione del miglioramento delle tecnologie per la gestione digitale dei contratti.
8. Conclusioni
Il dibattito italiano attorno all’impatto delle tecnologie digitali sull’interazione tra proprietà intellettuale e norme della comunità degli scienziati e sull’accesso alla conoscenza scientifica è ai primordi.
In questi ultimi anni si è iniziato a discutere di trasferimento tecnologico dall’università all’industria e di commercializzazione della ricerca scientifica. Le discussioni si sono concentrate per lo più sul diritto dei brevetti e dei segreti industriali. Lo dimostra, se non altro, il fiorire di regolamenti brevetti e spin-off all’interno delle nostre università. Nel frattempo le tecnologie digitali modificavano profondamente il quadro di riferimento portando in esponente numerose altre questioni (molte delle quali attengono al diritto d’autore) che chiamano in causa il più ampio problema del trasferimento delle conoscenze dalla comunità scientifica al pubblico.
La comunità scientifica si dibatte tra le «allettanti promesse» della commercializzazione della ricerca e la nobile realtà dell’Open Access.
A ben vedere questa dissociazione si riflette nel conflitto tra le differenti forme di controllo delle informazioni digitali che il contesto delle tecnologie informatiche e telematiche ha generato. Da una parte, un controllo rigido ed accentrato come quello che fa leva sul DRM. Dall’altra un controllo flessibile e decentrato come quello che si basa sulla GNU GPL e le CC Licences. Le regole che disegnano in modo differente il controllo trovano le loro fonti nei negli standard tecnologici, nei contratti, nelle consuetudini e nei diritti statali. Il progresso della conoscenza e la libertà di pensiero raccomandano di non preferire e legittimare un’unica forma di controllo. La libertà di poter scegliere la forma di controllo che si ritiene più opportuna costituisce il presupposto dell’accrescimento della conoscenza nell’era digitale.
Tuttavia, questa libertà, nell’ambito della ricerca scientifica finanziata con fondi pubblici incontra un limite. I risultati della ricerca devono essere prontamente e gratuitamente messi a disposizione del pubblico.
A tale scopo occorre studiare qual è il migliore assetto istituzionale. Nell’ambito di questa linea di esplorazione, un problema assai rilevante concerne l’interazione tra standard tecnologici, contratti e norme informali della comunità scientifica.
Per ora, a noi rimane solo da dire: fummo non fatti a viver soggiogati dalla forza bruta della tecnologia, ma per seguir diritto e conoscenza scientifica!
NOTE
1 Professore associato di Diritto Privato Comparato presso Università di Trento.
2 V. P. A. David, Le istituzioni della proprietà intellettuale ed il pollice del panda. Brevetti, diritti d’autore e segreti industriali nella teoria economica e nella storia (trad. it. a cura di M. Fontana), in G. Clerico, S. Rizzello (a cura di), Diritto ed economia della proprietà intellettuale, Padova, 1998, 9.
3 V., per i primi ragguagli sulla lettura in chiave economica della proprietà intellettuale, P. S. Menell, S. Scotchmer, Intellectual Property, in A. M. Polinsky, S. Shavell (eds.), Handbook of Law and Economics, Amsterdam, 2007, disponibile anche su Social Science Research Network (SSRN) all’URL: .
4 «Come è risaputo, in presenza di queste caratteristiche i mercati concorrenziali – nei quali il prezzo tende ad abbassarsi verso il costo dell’offerta dell’unità marginale del bene commerciale – di solito funzionano assai male; i ricavi dei produttori in concorrenza non copriranno neppure i loro costi totali di produzione, e tanto meno renderanno una cifra che si avvicini al valore d’uso dei beni per la gente. Di certo, il tentativo di far pagare ai beneficiati il valore ricevuto ridurrebbe la domanda al punto da determinare un livello di consumo insufficientemente basso» (così David, Le istituzioni della proprietà intellettuale ed il pollice del panda. Brevetti, diritti d’autore e segreti industriali nella teoria economica e nella storia, cit., 25).
5 Cfr. David, Le istituzioni della proprietà intellettuale ed il pollice del panda. Brevetti, diritti d’autore e segreti industriali nella teoria economica e nella storia, cit., 27 ss.
6 Si pensi, nel nostro ordinamento, all’art. 65 del d. lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, codice della proprietà industriale, in materia di invenzioni dei ricercatori delle università e degli enti pubblici di ricerca. O ancora agli art. art. 11 c.2, art. 29 della l. 22 aprile, n. 633, protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, in materia di titolarità delle opere dell’ingegno, in materia di titolarità e durata dei diritti sulle raccolte di atti e sulle pubblicazioni create e pubblicate sotto il nome ed a conto e spese delle accademie e degli altri enti pubblici culturali, nonché all’art. 64-sexies, c.1 lett. a), in materia di sottrazione all’autorizzazione del titolare del diritto d’autore dell’accesso o della consultazione della banca di dati per esclusive finalità didattiche o di ricerca scientifica e, soprattutto, all’art. 70 in materia libera utilizzazione dell’opera dell’ingegno per fini di insegnamento o di ricerca scientifica.
7 Il riferimento è a M. Polanyi, The Republic of Science: Its Political and Economic Theory, 1 Minerva 54 (1962), disponibile all’URL: , nel quale, tra l’altro, si descrive la comunità scientifica come un sistema indipendente e che dovrebbe rimanere indipendente (da scelte statali accentrate) capace di autocoordinarsi in base agli standard che governano il prestigio professionale tra i quali figurano la plausibilità, il valore scientifico e l’originalità dei risulti della ricerca. Mentre la plausibilità ed il valore scientifico spingono verso l’omologazione, l’originalità induce il dissenso.
8 R. K. Merton, Scienza e struttura sociale democratica, in R. K. Merton, Teoria e struttura sociale. Vol. III Sociologia della conoscenza e sociologia della scienza, Bologna, 2000, 1055 (versione originale Science and Technology in a Democratic Order in 1 Journal of Legal and Polotical Sociology 115 (1942)).
9 Merton, Scienza e struttura sociale democratica, cit., 1060: «[l]’universalismo trova immediatamente espressione nel canone che ogni verità che pretende di essere tale deve essere, qualunque sia la sua fonte, soggetta a ‘criteri impersonali prestabiliti’, in accordo con l’osservazione e con la conoscenza precedentemente confermata. Il rifiuto o l’ammissione di qualunque proposizione nel corpo della conoscenza scientifica non deve dipendere dalle caratteristiche personali o sociali di colui che questa proposizione ha avanzato. La razza, la nazionalità, la religione, la classe e qualunque qualità personale dell’uomo di scienza sono, come tali, irrilevanti».
10 Merton, Scienza e struttura sociale democratica, cit., 1065: «[l]e scoperte sostanziali della scienza sono un prodotto di collaborazione sociale e sono assegnate alla comunità. Esse costituiscono un’eredità comune in cui il diritto del produttore individuale è severamente limitato. Una legge o una teoria eponima non entrano a far parte del patrimonio dello scopritore e dei suoi eredi né a loro vengono conferiti speciali diritti di uso e disposizione: i diritti di proprietà nella scienza sono ridotti al minimo dalle esigenze dell’ethos scientifico. Il diritto dello scienziato alla ‘sua proprietà’ è limitato a quel riconoscimento e a quel prestigio che, se l’istituzione funziona con un minimo di efficienza, sono misurati dalla significatività dell’incremento portato al fondo comune di conoscenza. […]».
11 Merton, Scienza e struttura sociale democratica, cit., 1068: «[i]l carattere comunitario della scienza si riflette anche nel riconoscimento degli scienziati della loro dipendenza da un’eredità culturale sui cui non avanzano alcuna pretesa di privilegio. L’osservazione di Newton: ‘Se io ho visto lontano è perché stavo sulle spalle dei giganti’, esprime allo stesso tempo un senso di debito nei confronti del retaggio comune e il riconoscimento della qualità essenzialmente cooperativa e cumulativa delle realizzazioni scientifiche. L’umiltà del genio scientifico non è solo culturalmente appropriata, ma risulta dalla consapevolezza che il progresso scientifico implica la collaborazione delle generazioni passate e presenti». Sulle origini del motto che fa riferimento alle spalle dei giganti v. U. Eco, Dicebat Bernardus Carnotensis, introduzione all’edizione italiana di R. K. Merton, Sulle spalle dei giganti, Bologna, 1991, 5 ss.
12 Merton, Scienza e struttura sociale democratica, cit., 1066-1067: «[a] causa dell’importanza attribuita al riconoscimento e al prestigio quale unico diritto di proprietà dello scienziato, è comprensibile coma la preoccupazione per la priorità delle scoperte scientifiche divenga la risposta ‘normale’. Le controversie sulla priorità delle scoperte che sono caratteristiche della storia della scienza moderna derivano dall’accento istituzionale sull’originalità. […] Il concetto istituzionale della scienza come parte del patrimonio comune è legato all’imperativo della comunicazione dei risultati. La segretezza è l’antitesi di questa norma, la comunicazione completa e senza vincoli è la sua attuazione pratica. La pressione per la diffusione dei risultati è accresciuta dalla meta istituzionale di allargare i confini della conoscenza e dall’incentivo del riconoscimento che è, naturalmente, subordinato alla pubblicazione».
13 Cfr. V. Ancarani, La scienza decostruita – Teorie sociologiche della conoscenza scientifica, Milano, 1996, 89 ss.
14 Cfr. Merton, Scienza e struttura sociale democratica, cit., 1068-1069: «[i]l comunismo dell’ethos scientifico è incompatibile con la concezione dell’economia capitalistica che la tecnologia sia ‘proprietà privatà. Scritti correnti sulla ‘frustrazione della scienzà riflettono questo conflitto. I brevetti proclamano diritti esclusivi di uso e, spesso, di non uso. […] Varie sono state le risposte a questa situazione di conflitto. Come misura difensiva alcuni scienziati sono giunti a far brevettare il loro lavoro per poterlo rendere accessibile al pubblico […]. Gli scienziati sono stati indotti a farsi promotori di nuove imprese economiche ed altri cercano di risolvere il conflitto invocando il socialismo».
15 Cfr., tra gli altri, R. S. Eisenberg, Proprietary Rights and the Norms of Science in Biotechnology Research, 97 Yale L.J. 177 (1987); R. P. Merges, Property Rights Theory and the Commons: The Case of Scientific Research, in AA.VV., Scientific Innovation, Philosophy, and Public Policy, Cambridge Univ. Press, 1996, 145; A. K. Rai, Regulating Scientific Research: Intellectual Property Rights and the Norms of Science, 94 Nw. U.L. Rev. 77 (1999), disponibile su SSRN all’URL: ; R. R. Nelson, The Market Economy, and the Scientific Commons, Sant’Anna School of Advanced Studies LEM Working Papers 2003/24, 2003, disponibile all’URL: .
16 V. D. C. Mowery, B. N. Sampat, The Bayh-Dole Act of 1980 and University-Industry Technology Transfer: A Model for Other OECD Governments?, working paper 2004, disponibile all’URL: , 14, i quali rilevano che: «a […] negative effect of increased university patenting and licensing is the potential weakening of academic researchers’ commitments to ‘open science’, leading to publication delays, secrecy, and withholding of data and materials […]. There are indications in this research on university patenting and licensing that the ‘disclosure norms’ of academic research in specific fields have been affected by increased faculty patenting, but more research on this issue is needed». Nella letteratura italiana v. R. Iorio, La ricerca universitaria verso il mercato per il trasferimento tecnologico e rischi per l’«Open Science»: posizioni teoriche e filoni di indagine empirica, in L’industria, 2005, 405; nonché, dello stesso autore, Ricerca industriale di scienziati accademici: una opportunità o un rischio per la open science? Evidenza empirica, considerazioni teoriche ed esiti di un questionario in tre università italiane, Univ. Di Ferrara – Dipartimento di Economia Istituzioni Territorio Quaderno n. 20/2005, disponibile all’URL: . La tensione tra la tradizionale propensione a pubblicare il più presto possibile i risultati della ricerca scientifica ed i requisiti per la brevettabilità incrocia l’istituto previsto in alcuni ordinamenti del cosiddetto periodo di grazia («grace period»). Proprio nell’ordinamento nordamericano la section 102 (b) del title 35 USC l’invezione descritta in una pubblicazione può essere ancora brevettata entro il termine di un anno dal momento della medesima pubblicazione. Sul punto v. A. Monotti, S. Ricketson, Universities and Intellectual Property. Ownership and Exploitation, New York, 2003, 249 ss.; nonché, da ultimo, M. A. Bagley, Academic Discourse and Proprietary Rights: Putting Patents in their Proper Place, 47 B. C. L. Rev. 217 (2006), disponibile su SSRN all’URL: .
17 I paragrafi dal 3 al 5 si basano sul ragionamento che ho svolto in Forme di controllo delle informazioni digitali: il Digital Rights Management, in R. Caso (a cura di), Digital Rights Management – Problemi teorici e prospettive applicative. Atti del Convegno tenuto presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento il 21 ed il 22 marzo 2007, in corso di pubblicazione.
18 Cfr. per una prospettiva a compasso allargato v. L. Gallino, La conoscenza come bene pubblico globale nella società delle reti, 2003, relazione predisposta per il convegno «La conoscenza come bene pubblico comune: software, dati, saperi», promosso dal Csi-Piemonte, Torino 17-18 novembre 2003, disponibile all’URL: http://www.csipiemonte.it/-convegni_scientifici/2003/dwd/abstract/gallino.pdf.
19 Per una prima sintetica illustrazione del mutamento dei modelli e delle strategie commerciali v. J. Farell, C. Shapiro, Proprietà intellettuale, concorrenza e tecnologie dell’informazione, in H. R. Varian, J. Farell, C. Shapiro, Introduzione all’economia dell’informazione, Milano, 2005, 75-77.
20V. M. A. Lemley, P. S. Menell, R. P. Merges, P. Samuelson, Software and Internet Law, I ed., New York, 2000, 31 ss.
21Sulle esternalità di rete v. M. A. Lemley, D. McGowan, Legal Implications of Network Economic Effects, 86 Calif. L. Rev. 479 (1998); M. L. Katz, C. Shapiro, Network Externalities, Competition, and Compatibility, 75 Am. Econ. Rev. 424 (1985).
22In generale, il cambiamento di uno standard comporta costi di riconversione. Gli effetti dei costi di riconversione sul mercato al consumo sono esplorati da P. Klemperer, Competition when consumers have switching costs: an overview with applications to industrial organization, macroeconomics and international trade, 62 Review of Economic Studies 515 (1995). Per una nitida illustrazione degli switching costs in contesti di mercato vicini ai temi trattati in questo lavoro v. Shapiro, Varian, Information Rules. Le regole dell’economia dell’informazione, Milano, 1999, 14, 125 ss.
23 V. M. Granieri, in R. Pardolesi, M. Granieri, Proprietà intellettuale e concorrenza: convergenza finalistica e liaisons dangereuses, in Foro it., 2003, V, 193, 194-195.
24 R. Cooter, T. Ulen, Law & Economics, Reading (Ma.), III ed., 2000, 128. Un monopolio naturale sorge nelle situazioni in cui al crescere della dimensione della produzione, i costi medi decrescono. In queste situazioni, l’impresa di più grandi dimensioni e con i costi più bassi può espellere i concorrenti dal mercato. Ad esempio, la distribuzione dei costi di ricerca e sviluppo su grossi volumi di produzione riduce il costo medio dell’innovazione.
25 Sul tema v. J. Farell, G. Saloner, Standardization, compatibility and Innovation, 16 Rand. J. Econ. 70 (1985). Ma è soprattutto alla teoria della path dependence, cioè alla teoria che studia i fenomeni di dipendenza dalle scelte effettuate nel passato, che occorre guardare per comprendere i costi legati all’obsolescenza degli standard. Su tale teoria v. P. David, Clio and the Economic of QWERTY: the Necessity of History, 75 Am. Econ. Rev. 332 (May 1985); nonché, da ultimo, dello stesso autore Path Dependence, Its Critics and the Quest for ‘Historical Economics’, 2000, disponibile all’URL: .
26 Si pensi alle differenti versioni delle licenze d’uso per lo stesso software (licenza per il consumatore, licenza per imprese, etc.). Queste strategie di marketing reggono solo se i vincoli relativi ai prodotti sono rispettati dai clienti. Se, ad esempio, il cliente qualificato come «consumatore» è libero di rivendere il bene – fissando liberamente il prezzo – ad un terzo cliente qualificato come «impresa» (c.d. fenomeno dell’«arbitraggio»), l’intera strategia salta.
La discriminazione dei prezzi è praticata dai produttori con il fine di catturare il maggiore surplus possibile ai consumatori. Ma i suoi effetti in termini di benessere collettivo sono discussi. Sull’argomento v., per i primi ragguagli, M. A. Lemley, P. S. Menell, R. P. Merges, P. Samuelson, Software and Internet Law, II ed., New York, 2003, 317 ss.; per approfondimenti, v. C. Shapiro, H. R. Varian, Information Rules. Le regole dell’economia dell’informazione, cit., 51 ss., 92 ss.; nonché H. R. Varian, Concorrenza e potere di mercato, in Varian, Farell, Shapiro, Introduzione all’economia dell’informazione, cit., 24 ss.
27 Cfr. Farell, Shapiro, Proprietà intellettuale, concorrenza e tecnologie dell’informazione, cit., 105 ss.
28 G. Pascuzzi, Il diritto dell’era digitale, II ed., Bologna, 2006, 185 ss.
29 A proposito della dimensione della Rete si è convincentemente sostento (v. M. A. Lemley, The Law and Economics of Internet Norms, 73 Chi.-Kent. L. Rev. 1257 (1998)) che le c.d. «Internet norms» sembrano essere mutevoli, frammentarie e pur sempre limitate a piccole ed instabili comunità (e quindi non riferibili alla globalità di Internet); in altri termini, non rispondono ai requisiti che i sistemi giuridici occidentali ritengono necessari per annoverare le consuetudini tra le fonti del diritto (v., per una trattazione critica della consuetudine in riferimento al diritto italiano, R. Sacco, Il diritto non scritto, in G. Alpa, A. Guarnieri, P. G. Monateri, G. Pascuzzi, R. Sacco, Le fonti del diritto italiano – Vol. 2 – Le fonti non scritte e l’interpretazione, in Trattato di diritto civile diretto da R. Sacco, Torino, 1999, 5).
30 Il riferimento è a L. Lessig, Code and Other Laws of Cyberspace, New York, 1999. Nella letteratura italiana, v. A. Rossato, Diritto ed architettura nello spazio digitale – Il ruolo del software libero, Padova, 2006.
31 La metafora è di B. Latour, Where Are the Missing Masses? The Sociology of a Few Mundane Artifacts, in W. E. Bijker, John Law (eds.), Shaping Technology/Building Society: Studies in Sociotechnical Change, Cambridge (Ma.),1992, 225, 244.
32 V. R. Caso, Un ‘rapporto di minoranzà: elogio dell’insicurezza informatica e della fallibilità del diritto: note a margine del Trusted Computing, in R. Caso (cur.), Sicurezza informatica: regole e prassi – Atti del Convegno tenuto presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento il 6 maggio 2005, Trento, 2006, 5, 44-45, disponibile all’URL: .
33 Sulla natura delle regole incorporate in architetture digitali v., da ultimo, D. L. Burk, Market Regulation and Innovation: Legal and Technical Standards in Digital Rights Management, 74 Fordham L. Rev. 537 (2005).
34 Cfr. Pascuzzi, Il diritto dell’era digitale, cit., 304 ss.
35 Cfr. Pascuzzi, Il diritto dell’era digitale, cit., 273 ss.
36 Il riferimento è a R. Sacco, Il diritto muto, in Riv. dir. civ., 1993, I, 689.
37 Cfr. S. Bechtold, Value-centered Design of Digital Rights Management, Indicare, 2004, disponibile all’URL: ; B. Friedman, D. C. Howe, E. Felten, Informed Consent in the Mozilla Browser: Implementing Value Sensitive Design, in Proceedings of the 35th Hawaii International Conference on System Sciences, 2002.
38 Il software, lo si è già accennato nel testo, è rappresentato attraverso due codici: quello «sorgente», espresso in un linguaggio informatico di programmazione comprensibile anche dall’uomo, e quello «oggetto» o «eseguibile», che è interpretabile solo dal computer. Il passaggio da sorgente a oggetto è effettuato attraverso altro software specifico («interprete» o «compilatore»). Per l’informatico che non conosce il codice sorgente è teoricamente possibile il procedimento inverso – «decompilazione» o «ingegneria inversa» – che porta dal codice oggetto ad un codice sorgente simile a quello originario; ma tale procedimento comporta notevoli costi. La più semplice delle misure tecnologiche di protezione digitale – finalizzata a tutelarsi da potenziali concorrenti in grado di «rubare le idee» – è, dunque, rappresentata dalla secretazione del codice sorgente.
39 M. Stefik, Shifting the Possible: How Digital Property Rights Challenge Us to Rethink Digital Publishing, 12 Berkeley Tech. L.J. 138 (1997).
40 V. G. Calabresi, A. D. Melamed, Property Rules, Liability Rules and Inalienability: One View of the Cathedral, 85 Harvard Law Review 1089 (1972); in riferimento ai diritti di proprietà intellettuale, R. P. Merges, Of Property Rules, Coase, and Intellectual Property, 94 Colum. L. Rev. 2655 (1994).
41 Si pensi allo sviluppo di ciò che era destinato a diventare Internet, cioè al progetto ARPANET, la rete voluta dall’Advanced Research Projects Agency (ARPA) statunitense.
Non è dunque un caso che gli attuali protocolli (TCP/IP) che costituiscono l’architrave di Internet siano standard aperti.
42 Notizie su Stallman si rinvengono presso la sua home page all’URL: «http://www.stallman.org/».
43 V. R. Stallman, Software libero – Pensiero libero, vol. I, Viterbo, 2003, 11 ss.
44 La letteratura sulla GNU GPL e sul software a codice aperto è oramai allaviunale. V., fra i tanti, A. L. Guadamuz, GNU General Public License v3: A Legal Analysis, SCRIPT-ed, Vol. 3, No. 2, 2006, disponibile su SSRN all’URL: «http://ssrn.com/abstract=909780»; S. Kumar, Enforcing the Gnu Gpl, in University of Illinois Journal of Law, Technology & Policy, Vol. 1, 2006, disponibie su SSRN all’URL: «http://ssrn.com/abstract=936403»; B. W. Carver, Share and Share Alike: Understanding and Enforcing Open Source and Free Software Licenses, 20 Berkeley Tech. L.J. 443 (2005); R. W. Gomulkiewicz, General Public License 3.0: Hacking the Free Software Movement’s Constitution, 42 Hous. L. Rev. 1015 (2005); Y. Benkler, Coase’s Penguin, or, Linux and The Nature of the Firm, 112 Yale L.J. 369 (2002); D. Mcgowan, Legal Implications of Open Source Software, 2001 U. Ill. Rev. 241 (2001) disponibile su SSRN all’URL: «http://ssrn.com/abstract=243237».
Nella letteratura italiana v. S. Bisi, Brevi considerazioni sulla GPL v.3: profili giuridici, politici e tecnologici, in Ciberspazio e dir., 2006, 441; M. A. Caruso, Diritto d’autore, libertà di fruizione delle informazioni e open source, in Dir. autore, 2006, 20; S. Gatti, Nuove modalità di fruizione delle opere dell’ingegno. L’open source, in Riv. dir. comm., 2006, I, 323, Rossato, Diritto e architettura nello spazio digitale – Il ruolo del software libero, cit., spec. 165 ss.; M. Bertani (cur.), Open Source, Atti del Convegno. Foggia, 2-3 luglio 2004, Milano, 2005; AA.VV., Open Source, software proprietario e concorrenza, Atti del Convegno. Pavia, 24-25 settembre 2004, in Annali it. dir. autore, 2004.
45 Stallman, Software libero – Pensiero libero, cit., 59.
46 V. in particolare i preamboli della versione 2 del giugno 1991 (all’URL: «http://www.gnu.org/licenses/old-licenses/gpl-2.0.html») e della versione 3 del 29 giugno 2007 (all’URL: «http://www.gnu.org/licenses/gpl-3.0.html»).
47 V. quanto affermato nel citato preambolo della versione 3 del 29 giugno 2007: «[t]o protect your rights, we need to prevent others from denying you these rights or asking you to surrender the rights. Therefore, you have certain responsibilities if you distribute copies of the software, or if you modify it: responsibilities to respect the freedom of others.
For example, if you distribute copies of such a program, whether gratis or for a fee, you must pass on to the recipients the same freedoms that you received. You must make sure that they, too, receive or can get the source code. And you must show them these terms so they know their rights».
48 V. W. M. Carroll, Creative Commons as Conversational Copyright, Villanova Law/Public Policy Research Paper No. 2007-8, disponibile su SSRN all’URL: «http://ssrn.com/abstract=978813»; L. Pallas Loren, Building a Reliable Semicommons of Creative Works: Enforcement of Creative Commons Licenses and Limited Abandonment of Copyright, 14 George Mason Law Review 271 (2007), disponibile su SSRN: «http://ssrn.com/abstract=957939»; H. A. Hietanen, A License or a Contract, Analyzing the Nature of Creative Commons Licenses, in corso di pubblicazione su Nordiskt Immateriellt Rättsskydd (NIR, Nordic Intellectual Property Law Review), e disponibile su SSRN all’URL: «http://ssrn.com/abstract=1029366»; N. Elkin-Koren, Creative Commons: A Skeptical View of a Worthy Pursuit, in P. B. Hugenholtz, L. Guibault (eds.), The Future of the Public Domain, 2006, disponibile su SSRN all’URL: «http://ssrn.com/abstract=885466». Nella letteratura italiana v. M. G. Jori, Creative Commons: passato, presente e futuro dei beni comuni, in Ciberspazio e dir., 2007, 83; M. Fabiani, Creative Commons. Un nuovo modello di licenza per l’utilizzazione delle opere in Internet, in Dir. autore, 2006, 157; M. Travostino, Alcuni recenti sviluppi in tema di licenze Creative Commons, in Ciberspazio e dir., 2006, 253; M. Bertani, Alcune considerazioni sulle licenze Creative Commons a seguito della loro introduzione in Italia, in Diritto di autore e nuove tecnologie, 2005, 35; S. Aliprandi, Copyleft & opencontent, l’altra faccia del copyright, Piacenza, 2005, 100 ss.
49 La categoria «commons» evoca il fenomeno delle proprietà collettive. Nell’ambito delle CC Licenses il riferimento lascia intendere che il contratto [supportato da una consuetudine?] possa generare una forma differente dalla «proprietà intellettuale esclusiva», cioè una «proprietà intellettuale collettiva».
50 Sull’argomento v., tra gli altri, P A. David, The Digital Technology Boomerang: New Intellectual Property Rights Threaten Global «Open Science», Proceedings of the World Bank Annual Conference on Development Economics- Europe 2000, disponibile all’URL: ; D. L. Burk, Intellectual Property Issues in Electronic Collaborations, in S. H. Koslow, M. F. Huerta (eds.), Electronic Collaboration in Science, 2000, disponibile su SSRN all’URL: ; R. Cooper Dreyfuss, Commodifying Collaborative Research, in N. Netanel, N. Elkin Koren (eds.), The Comnodification of Information, The Hague, 2002, disponibile anche su SSRN all’URL: ; D. L. Burk, Intellectual Property in the Context of E-Science, (August 18, 2006) Minnesota Legal Studies Research Paper No. 06-47, disponibile su SSRN all’URL: .
51 Sul tema v. R. Caso, La commercializzazione della ricerca scientifica pubblica: regole e incentivi, in R. Caso (a cura di), Ricerca scientifica pubblica, trasferimento tecnologico e proprietà intellettuale, Bologna, 2005, 9, 16 ss. ivi riferimenti.
52 Sul tema v., in riferimento alle pubblicazioni giuridiche nel contesto statunitense, J. Litman, The Economics of Open-Access Law Publishing, 10 Lewis & Clark Law Review 779 (2006), disponibile su SSRN all’URL: . Olufunmilayo, Open Access in a Closed Universe: Lexis, Westlaw, Law Schools, and the Legal Information Market, 10 Lewis & Clark Law Review 797 (2006), disponibile su SSRN all’URL: .
53 Cfr. Burk, Intellectual Property Issues in Electronic Collaborations, cit.
54 C’è il rischio concreto che si determini quella che è stata definita la tragedy of anticommons v. M. A. Heller, R. S. Eisenberg, Can Patents Deter Innovation? The Anticommons in Biomedical Research, Science (May 1) 698 (1998), disponibile all’URL: .
55 La prima rilevante forma di tutela giuridica delle misure tecnologiche di protezione (MTP) si deve ai WIPO Treaties (il WIPO Copyright Treaty e il WIPO Performances and Phonograms Treaty) del 1996. I legislatori statunitense ed europeo hanno dato attuazione al mandato internazionale della WIPO emanando rispettivamente il Digital Millennium Copyright Act (DMCA) del 1998 e la direttiva 2001/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 maggio 2001, relativa all’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione, trasposta in Italia con d. lgs. 9 aprile 2003, n. 68, il quale ha pesantemente novellato la legge 22 aprile, n. 633.
Semplificando, il nucleo comune delle norme nordamericane ed europee sta nel triplice divieto:
a) di elusione delle misure tecnologiche poste a protezione dei diritti di esclusiva;
b) di produzione o diffusione di tecnologie «principalmente finalizzate» all’elusione delle MTP;
c) di rimozione o alterazione delle informazioni sul regime dei diritti.
Sull’impatto della disciplina delle MTP contenuta nel DMCA sulla ricerca accademica in materia di crittografia v. J. P. Liu, The DMCA and the Regulation of Scientific Research, 18 Berkeley Tech. L. J. 501 (2003), disponibile su SSRN all’URL: .
56 Sull’intersezione tra DRM e ricerca scientifica v. C. Orwat, Digital Rights Management in Public Science – Report on the 4th INDICARE Workshop held on 8 Dec 2005 in Brussels, 2006, disponibile all’URL: .
57 V. Burk, Intellectual Property in the Context of E-Science, 8-12.
58 Per una visione d’insieme v. J. Willinsky, The Access Principle – The Case for Open Access to Research and Scholarship, Cambridge (MA), 2006.
59 Si pensi, nell’ambito delle scienze sociali, a Social Science Research Network: .
60 Si veda, nel campo delle scienze biomediche, BioMed Central () e Public Library of Science (PLoS) che fa capo ad una serie di siti Web tematici (i cui indirizzi Web sono rintracciabili alla voce Public Library of Science della versione inglese di Wikipedia all’URL: .
61 Nel testo della Dichiarazione di Berlino, disponibile all’URL: , si legge tra l’atro quanto segue: «[o]ur mission of disseminating knowledge is only half complete if the information is not made widely and readily available to society. New possibilities of knowledge dissemination not only through the classical form but also and increasingly through the open access paradigm via the Internet have to be supported. We define open access as a comprehensive source of human knowledge and cultural heritage that has been approved by the scientific community». Alla dichiarazione di Berlino hanno aderito quasi tutti gli atenei italiani v. l’elenco dei firmatari all’URL: .
62 V. Burk, Intellectual Property in the Context of E-Science, 17.
63 V. . Uno strumento particolarmente interessante messo a punto da questo progetto è lo Scholar’s Copyright Addendum Engine (disponibile all’URL: , un «motore» che genera un documento in PDF da allegare al contratto tra editore e scienziato nel quale quest’ultimo, autore della pubblicazione, si riserva alcuni diritti finalizzati a garantirsi la più ampia diffusione possibile dell’opera. A seconda delle opzioni prescelte il motore genera diversi termini contrattuali.
64 V. Burk, Intellectual Property in the Context of E-Science, 17-20.
65 Sul tema v., in generale, R. A. Hillman, J. J. Rachlinski, Standard-form Contracting in the Electronic Age, 77 N.Y.U.L. Rev. 429 (2002), disponibile su SSRN all’URL: .